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Giornata Internazionale delle Donne nella Scienza: le esperte di Harm Reduction

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L’11 febbraio si celebra la Giornata Internazionale delle donne e delle ragazze nella scienza, per ricordarci che la parità di genere nel campo scientifico è ancora lontana da essere raggiunta.

Nonostante la parità di genere sia uno degli obiettivi di sviluppo sostenibile da raggiungere entro il 2030 per l’agenda ONU, donne e ragazze continuano ad essere escluse dalla partecipazione a pieno titolo nelle materie scientifiche.

Secondo un report pubblicato lo scorso anno da ELSEVIER, l’Italia vede una partecipazione femminile nei campi scientifici al di sopra della media UE, con percentuali di impiego che si avvicinano al 40%. Se guardiamo però il quadro generale, le donne che possono proseguire la loro carriera all’interno di laboratori e centri di ricerca afferenti alle diverse materie scientifiche sono pari al 30%.

Secondo studi inglesi, il gap uomo-donna in in merito allo studio delle materie scientifiche si manifesta intorno ai 6 anni: un limite piuttosto basso se si considera che a quell’età la maggior parte dei bambini affronta principalmente le nozioni base di qualsiasi materia.

Pregiudizi di genere, l’ambiente circostante e il contesto culturale determinano pesantemente le decisioni future di studio di gran parte delle bambine, spesso cresciute nell’ottica che le materie scientifiche siano meno alla loro portata.

Sebbene i dati confermino una diminuizione del trend, le donne ricercatrici devono poi fronteggiare le differenze di trattamento sul luogo di lavoro, dove contratti sottopagati e lo spauracchio di ritorsioni in merito alla decisione di avere una famiglia diventano fenomeni all’ordine del giorno.

Al fine di ottenere pieno ed equo accesso e partecipazione alla scienza per le donne e le ragazze e raggiungere ulteriormente l’uguaglianza di genere e l’emancipazione di donne e ragazze, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha dichiarato l’11 febbraio come Giornata Internazionale delle Donne e delle Ragazze nella Scienza.

Purtroppo, ancora oggi, stereotipi e pregiudizi rendono le carriere delle donne un percorso a ostacoli. Solo il 16,5% delle giovani tra i 25 e i 34 anni si laureano in facoltà scientifico-tecnologiche, a fronte di una percentuale più che doppia per i maschi (37%).

Le donne rappresentavano un ricercatore su tre (33%) nel 2018. Hanno raggiunto la parità (in numero) nelle scienze della vita in molti paesi e in alcuni casi dominano persino questo campo.

Tuttavia, le donne rimangono una minoranza nella tecnologia dell’informazione digitale, nell’informatica, nella fisica, nella matematica e nell’ingegneria. Questi sono i campi che stanno guidando la rivoluzione digitale e, quindi, molti dei lavori di domani.

Le donne della scienza antifumo

Nel campo della riduzione del danno da fumo, sono sempre di più le voci di donne che rappresentano eccellenze nel settore della ricerca (spesso anche molto giovani) premiate per le grandi doti di analisi e precisione.

Di seguito vi proponiamo un elenco di alcuni dei nomi più illustri nel campo della ricerca scientifica sulla riduzione del danno da fumo, tra loro molte giovani ragazze:

  • Marewa Glover, Director of the Centre of Research Excellence on Indigenous Sovereignty and Smoking
  • Sree Sucharitha, Professor, Department of Community Medicine, Tagore Medical College Hospital, Chennai, India
  • Caitlin Notley, professor at Norwich Medical School at the University of East Anglia in Norwich, England
  • Carrie Wade, Director of Harm Reduction Policy, R Street Institute
  • Sharon Cox, Senior Research at University College London
  • Louise Ross, vice-chair of the New Nicotine Alliance
  • Pooja Patwardhan, Medical Director Centre for Health Research and Education UK
  • Renee O’Leary, project leader In Silico Science, CoEHAR, University of Catania
  • Tatiana Betson, Toxicology manager at BAT
  • Patricia Kovacevic, General Counsel and Chief Compliance Officer at Nicopure Labs
  • Eliana Golberstein, Chemist and a Pharmacist from New Zealand with studies in Public Health in the Taipei Medical University
  • Marilena Maglia, Clinical and health psychologist and researcher at the CoEHAR University of Catania and LIAF Italian Antismoking League
  • Lynne Dawkins, Professor of Nicotine and Tobacco Studies, London South Bank University
  • Karolien Adriaens, Faculty of Psychology and Educational Sciences, Leuven
  • Anastasia Barbouni, Professor of Public Health and Disease prevention, Department of Public and Community Health, School of Public Health, University of West Attica, Athens
  • Rosalia Emma, Lab manager and Data manager Replica project, CoEHAR, University of Catania
  • Amaliya Amaliya, PhD in Dentistry-Periodontology, Universitas Padjadjaran
  • Venera Tomaselli, Associate Professor of Social Statistics, University of Catania
  • Margherita Ferrante, Professor of General and Applied Hygiene, University of Catania
  • Cother Hajat, Professor of Public Health, Epidemiology and Medical Advisor, Royal College of Physicians, London
  • Emma Stein, Environmental, Social and Governance (ESG) Communications
  • Jennifer di Piazza, PhD, Doctoral Lecturer at Hunter College School of Nursing and a Board Certified Psychiatric Nurse Practitioner
  • Maria Salvina Signorelli, Psychiatrist, Psychotherapist, University of Catania

Quanta acqua bere per smettere di fumare?

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Il corpo umano è formato per il 60% di questo elemento semplice e primario: l’acqua.

La prima cosa da fare per contrastare l’effetto della ritenzione idrica è bere, e in genere questa abitudine ci deve accompagnare in ogni stagione, in particolare d’estate poiché il caldo aumenta la sudorazione e dunque la perdita di acqua dal nostro corpo, che deve essere frequentemente reintegrata.

L’acqua è ricca di sali minerali e oligoelementi, indispensabili per il corretto funzionamento di tutto l’organismo. In particolare, nei fumatori l’acqua accelera il processo di eliminazione della nicotina e dei prodotti tossici provenienti dalla combustione del tabacco attraverso l’urina, favorendo dunque la disintossicazione. Bere un bicchiere d’acqua a piccoli sorsi riduce il desiderio di fumare e, assieme alle fibre, allevia la stitichezza.

I medici consigliano di bere circa due litri d’acqua, da distribuire durante la giornata, in particolare al mattino è essenziale per pulire l’organismo dalle scorie accumulate durante la notte. Oltre ad eliminare le tossine, un bicchiere d’acqua ha il potere di far sparire la tipica secchezza dalla gola del fumatore. Questo è utile ogni qualvolta ritorna la voglia di fumare; bere un bicchiere d’acqua fresca rappresenta un rituale utile a dissuadersi dal fumare una sigaretta, aiutando i polmoni ad eliminare il muco e praticando un’azione lenitiva per la tosse.

Tanti i benefici, tra cui: effetto diuretico, effetto digestivo, depurativo per il fegato e la pelle, idratante per il corretto funzionamento del sistema linfatico e circolatorio, rinfrescante per l’alito. Tutti questi effetti combinati, rappresentano un aiuto fondamentale anche per smettere di fumare.

L’acqua deve essere leggera, con ridotta quantità di sodio e basso residuo fisso. Può essere utilizzata anche per realizzare tisane, infusi o acque aromatizzate da preparare con erbe, frutta e verdura fresca, tutte gradevoli soluzioni che ci aiutano a smettere di fumare, ma che soprattutto in estate si possono consumare tiepide o fredde, donando una sensazione di freschezza al corpo ed alla mente.

Clive Bates: la disinformazione sulle ecig come una scena del crimine americana

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Le percezioni legate al rischio delle sigarette elettroniche sembrano quasi una “scena del crimine americana– questo è il titolo di uno degli ultimi articoli firmati dall’esperto internazionale di Harm Reduction, Clive Bates che sul suo blog “The Counterfactual” ha pubblicato una interessante disamina della disinformazione dilagante sulla questione “riduzione del danno”.

La maggior parte degli americani oggi crede erroneamente che le sigarette elettroniche siano altrettanto o più dannose delle sigarette convenzionali. Le organizzazioni sanitarie statunitensi hanno coltivato in modo immorale questo equivoco e si sono confrontate sfavorevolmente con gli equivalenti britannici“.

Questo è quanto emerge da un sondaggio del National Cancer Institute degli Stati Uniti con cui sono state confrontate le comunicazioni sui rischi del vaping di quattro importanti organizzazioni sanitarie americane e quattro organizzazioni simili del Regno Unito. Il risultato del confronto è schiacciante.

Ma cosa emerge esattamente dal grafico?

  • Il 27,7% degli americani pensa che le e-cig siano più dannose o molto più dannose delle sigarette, e il 62% pensa che siano altrettanto o più dannose anche su questo non c’è alcuna base sostanziale;
  • Solo il 2,6% ha una percezione approssimativamente accurata di “molto meno dannosa”;
  • “Meno dannoso” si trova solo all’8,6%;
  • “Non so” in questo contesto è probabilmente una barriera significativa al cambiamento. Date le informazioni contrastanti e confuse che circolano, non sapere sarebbe una risposta ragionevole e una ragione per non rischiare di cambiare.
  • L’epidemia di lesioni polmonari del 2019 negli Stati Uniti, ufficialmente nota come EVALI, ha indubbiamente influenzato i risultati del 2020.

Come sono nate queste percezioni errate?

Le ragioni immediate del disallineamento tra le percezioni pubbliche sul rischio e le valutazioni degli esperti non sono difficili da capire. Alcuni fattori importanti come EVALI e forse le affermazioni relative alla pandemia COVID-19, il modo in cui queste sono state giocate nelle campagne anti-vaping. Ma anche gli infiniti spaventi mediatici e comunicazioni di rischio che sono stati falsi (come il vaping che provoca attacchi di cuore o ossa rotte) o, più comunemente, tecnicamente corretti ma fuorvianti – vedi le varie forme di narrazione “non è un’alternativa sicura”, “si presume che sia più sicuro”, “commercializzato come più sicuro”, “non sappiamo effetti a lungo termine” (come se non sapessimo nulla), e naturalmente sempre lo spettro dell’industria del tabacco.

Da non sottovalutare anche l’enorme proliferazione di studi scientifici spesso condotti con metodi ortodossi e lontani da standard condivisi, gli studi infatti spesso non ripetono le normali condizioni d’uso delle sigarette elettroniche e portano a risultati e dati discordanti. Il progetto Replica, uno dei progetti di ricerca del CoEHAR, ha invece confermato in questi due anni i risultati ottenuti dai maggiori studi internazionali, validandoli con tecniche innovative e testandoli in diversi laboratori internazionali, in condizioni indipendenti, confermando la minor tossicità dei dispositivi elettronici a rilascio di nicotina

Si tratta di una comunicazione dannosa come quella delle Big Tobacco degli anni 70?

Quello che sta succedendo non è etico e non eliminerà il fumo, anzi porterà più morti e malattie.

Qual è la posizione del Regno Unito?

La percentuale di britannici che crede che le sigarette elettroniche siano più o ugualmente dannose delle sigarette era del 37% nel 2020 e del 32% nel 2021. Per gli Stati Uniti nel 2020, quella cifra è del 62%. Quindi molto più sbagliato negli Stati Uniti, ma un livello comunque allarmante nel Regno Unito. Solo l’11-12% degli inglesi crede (correttamente) che le sigarette elettroniche siano molto meno dannose, ma questo si confronta con solo il 2,6% negli Stati Uniti nel 2020.

Una delle sfide che la comunicazione scientifica deve affrontare è equilibrare la necessità di dare informazioni chiare e precise con lo scopo di rassicurare le persone.

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Tobacco Transformation Index: le industrie si impegnano davvero?

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tobacco transformation index

Il Tobacco Transformation Index, lanciato a settembre 2021 su iniziativa della Foundation for a Smoke Free World, mira a valutare l’impegno delle 15 maggiori industrie del tabacco verso le politiche di harm reduction. Ma quanto è duttile come strumento?

di Costanza Nicolosi

Con 1.3 miliardi di fumatori nel mondo e oltre 8 milioni all’anno di morti per patologie fumo correlate, la valutazione degli sforzi delle major dell’industria del tabacco per ridurre l’impatto dannoso del fumo sulla popolazione assume un significato ancora più importante.

Con quasi il 90% della vendita totale mondiale di sigarette, le 15 aziende facenti parti dell’indice hanno un peso specifico importante sulle scelte dei consumatori e sulla distribuzione dei prodotto a base di tabacco sui mercati.

Se si osservano i dati di alcuni di questi grandi produttori che si sono impegnati nell’adottare scelte che contribuiscano alla lotta al tabagismo, valutati secondo i criteri di gestione aziendale quali marketing, strategia di vendita e lobbying, si nota come gran parte del loro business sia ancora incentrato sulle sigarette.

L’indice, nonostante la nascita recente, ha già ottenuto qualche effetto: la svedese MATCH AB ha difatti annunciato nel corso del 2021, il cambio di rotta nella vendita dei sigari, uno dei capisaldi della sua produzione che rappresenta circa il 28% dell’intero ricavo.

Lo scopo? Orientarsi  verso il tabacco orale e prodotti a base di nicotina come il tabacco da fiuto o quello da mastico.

Una scelta aziendale che avrà un impatto notevole sulla valutazione dell’indice. Tuttavia, se parlassimo di harm reduction in senso stretto, la decisione influisce semplicemente sulla proprietà del marchio e sull’eventuale vendita di sigari, che continueranno a rimanere in commercio. E la relativa valutazione dell’indice, se da un lato premierà la cessione, dall’altro non esprimerà giudizi su chi acquisirà il marchio, sopratutto in caso di aziende private o statali.

Il Tobacco Transformation Index ha dunque delle falle?

L’indice nasce con l’intento di dare una visione sintetica dell’approccio che moltissime aziende impegnate nella produzione di prodotti del tabacco hanno nei confronti delle scelte che possono ridurre il danno proveniente dai classici prodotti del tabacco.

In caso di situazioni come quella della Swedish Match, eventuali cambi societari non fanno parte del campo di applicazione dell’indice e comporterebbero un livello di analisi più dettagliato e che richiederebbe categorie ancora più specifiche.

Le difficoltà dell’indice stanno però proprio nel riuscire a riconoscere i comportamenti che si centrano e soddisfano alcuni criteri dell’indice, ma che non corrispondono a un reale impegno.

Un esempio? Eventuali cambiamenti di assetto societario o disinvestimenti specifici che aumenterebbero il ranking nell’indice ma che non sono lo specchio delle politiche dell’azienda.

Il Tobacco Transformation Index, inoltre, dovrebbe saper valutare il comportamento delle industrie anche in relazione ai paesi e alle geografiche a cui si legano le diverse attività, tenendo in considerazione il quadro normativo di riferimento, le abitudini dei consumatori e specifici fattori che influiscono sui mercati.

Da un punto di vista giuridico, una possibile evoluzione del Tobacco Transformation Index deve poter misurare in maniera sintetica anche un aspetto prettamente normativo e l’eventuale relazione tra questo e le attività di produzione e vendita dei prodotti a base di tabacco.

L’ambito di applicazione dell’indice è dunque alquanto difficile da delineare e si basa molto sulla capacità delle aziende di essere il più possibile trasparenti, favorendo la cooperazione per il raggiungimento degli obiettivi.

Il passaggio a un approccio di riduzione del danno è senza dubbio il primo ma anche il passo più concreto da compiere contro l’epidemia tabagica e verso un mondo veramente senza fumo. E l’Indice ne è una parte importante.

Li Volti: “Il 90% dei fumatori passerebbe al vaping se fosse correttamente informato”

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In un’intervista apparsa sull’Ashtray Blog, e di cui riportiamo la versione integrale, il prof. Giovanni Li Volti, direttore del CoEHAR, spiega al giornalista James Dunworth i risultati ottenuti grazie al progetto Replica, che ha dimostrato che le sigarette elettroniche sono molto meno tossiche rispetto alle sigarette tradizionali

Intervista originale

Il progetto Replica è uno dei principali progetti di ricerca portati avanti dal centro di ricerca catanese, creato con lo scopo di riprodurre alcuni tra gli studi più importanti nel settore delle sigarette elettroniche e dei prodotti a tabacco riscaldato, replicando in maniera indipendente noti studi internazionali in cinque laboratori diversi nel mondo.

Il prof. Li Volti ha voluto spiegare gli ultimi traguardi raggiunti dal progetto, dati accessibili da scienziati e giornalisti in tutto il mondo, sottolineando quanto ancora la disinformazione sia imperante nel settore.

“Il 90% dei fumatori attuali passerebbe a prodotti meno dannosi se credesse che siano sicuri e se fosse correttamente informato. Ogni giorno leggiamo delle morti da Covid sui giornali, ma vorrei ricordare che ogni anno nel mondo muoiono 5 milioni di persone per i prodotti del tabacco”

Giovanni LI Volti

Un altro problema, secondo il Direttore del CoEHAR, è che molti ricercatori e medici, pur di evitare di essere associati all’industria del fumo qualora sostenessero il vaping, consigliano ai fumatori semplicemente di smettere. Ma solo il 15% dei fumatori è in grado di farlo

Prof. Giovanni Li Volti, mi può parlare del progetto Replica?

Come suggerisce il nome, il progetto Replica mira a replicare alcuni tra i più importanti studi che paragonano i dati sulle sigarette convenzionali a quelli sui dispositivi elettronici. Molti di questi studi sono stati compiuti dall’industria del tabacco.

Leggendo questi lavori, le persone hanno avuto il timore che ci potesse essere alla base un conflitto di interessi. Noi abbiamo dunque voluto riprodurre tali studi e vedere che risultati si potevano ottenere, rimuovendo il possibile conflitto di interesse alla base.

Gli esperimenti sono stati condotti seguendo il modello di un “ring study”, ovvero coinvolgendo 5 differenti laboratori in tutto il mondo: la Temple University (USA), la University of Patras (Grecia), la University of Kragujevac (Serbia), la University of Sultan Qaboos in Oman e l’Università di Kazan Rush (Indonesia).

Per rimuovere qualsiasi pericolo di parzialità ed errore usando il protocollo sbagliato, abbiamo coinvolto 5 differenti laboratori. La parte più difficile di questo lavoro è stata armonizzare la ricerca in cinque paesi diversi, con tutti i problemi legati alla pandemia e alla strumentazione e ovviamente alla coordinazione di un gruppo geograficamente così distante.

Se parlassi a uno svapatore, o a un fumatore che sta prendendo in considerazione l’idea dello switch, quali gli diresti essere i risultati più importanti di questo studio?

I risultati più importanti li ritroviamo nella differenze evidenziate quando si comparano le sigarette tradizionali ai prodotti a tabacco riscaldato o alle sigarette elettroniche. Innanzitutto, bisogna effettuare una comparazione considerando la stessa quantità di nicotina, che è qualcosa che non sempre scienziati e giornalisti considerano. Devi essere sicuro di usare gli stessi dispositivi.

Bisogna anche assicurarsi che il sistema si clinicamente rilevante. Significa esporre le cellule epiteliali al vapore, in quanto sono queste che sono direttamente esposte ai componenti tossici inalati.

Inoltre, in alcuni studi si espongono le cellule a circa 500 svapate, ma questo non può essere clinicamente rilevante. Ovviamente otterrò dati di tossicità facendolo, ma questa non è l’esperienza reale degli svapatori.

Se infatti consideriamo che tu sei uno svapatore, quanto svapate fai? Quante ne fai adesso, al seocndo: ovviamente non ne fai 500?

Dunque sarà necessario usare un metodo standardizzato di esporre le cellule al vapore in maniera analoga alla tua esperienza reale. Questa è la prima cosa da vedere in uno studio ed è quello che abbiamo fatto negli studi replicati.

Dopo essere sicuri di parlare di dati staticamente rilevanti, siamo passati a comparare tra loro due o tre dispositivi. Posso affermare che le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato sono il 90% più sicuri delle sigarette tradizionali. Io non fumo, ma se fumassi non avrei esitazione a cambiare passando a questi dispositivi.

Come si confrontano questi dati con le stime di Public Health England (ecig 95% più sicure delle sigarette convenzionali)?

Questa è una domanda interessante. È come quando vuoi misurare lunghezza del tavolo della cucina perché tua moglie decide che è ora di cambiarlo.

Abbiamo tutti sperimentato problemi simili, in altri campi e settori della vita. Ci sono diverse modalità per misurare lo spazio a disposizione. 

Si potrebbe usare un comune metro. Oppure usare un laser, o le mani, sapendo che sono all’incirca lunghe 20 cm.

È la stessa cosa quando misuriamo la tossicità. Non c’è un metodo standardizzato o uno migliore di altri, dunque il metodo migliore è usare tecniche differenti con principi base differenti in modo tale da poter replicare la possibile tossicità. Noi abbiamo deciso di replicare gli studi utilizzando un metodo chiamato “neutral red uptake”.

Si tratta di un metodo standardizzato usato dall’industria e consigliato sia dal FDA sia dalla Commissione Europea per fornire un profilo di tossicità.

Possono però sussistere eventuali parzialità, come in tutti i protocolli, così abbiamo aggiunto altri tre metodi, ognuno con una modalità diversa di rilevazione della tossicità. Uno è privo di etichette, e dunque misuriamo solo l’impedenza elettrica alla sorgente. Se le cellule si staccano significa che stanno morendo. Se l’elettricità che passa attraverso le cellule decresce possiamo misurarla. Abbiamo così una curva temporale della tossicità dopo l’esposizione al dispositivo o alla sigaretta elettronica.

Quindi utilizziamo l’analisi citofluorimetrica che misura cellula per cellula. Abbiamo un nome per ciascuna delle celle e posso dirti se ciascuna cellula è viva, se morirà in pochi istanti o se è completamente morta. Tutte queste tecniche hanno dato gli stessi risultati.

Non voglio essere troppo tecnico, ma penso che il messaggio più importante qui sia che tecniche differenti hanno dato gli stessi risultati, anche se con alcune differenze scientifiche. Ma il messaggio finale non cambia, e possiamo confermare che le sigarette elettroniche e i prodotti a tabacco riscaldato sono molto meno tossici delle sigarette tradizionali

Dunque non pensa che la stima “95% più sicure del fumo tradizionale” di Public Health England sia un’esagerazione?

No, il 5% non fa una grossa differenza. Dipende dal metodo che utilizzi per misurarla. 

Per esempio, l’analisi citofluorimetrica è un metodo molto sensibile. Potresti arrivare al 95% se usassi il “neutral red”, che è un ottimo metodo per attestare la tossicità, ma è meno sensibile.

Ho cercato di dare un’indicazione media sulle differenti tecniche, ma quando leggi numeri del genere devi sempre fare riferimento ai metodi usati. Ma penso che il messaggio sia chiaro. Questi dispostivi sono meno tossici delle sigarette.

Nel comunicato stampa si legge che circa l’80% della tossicità del fumo di sigaretta proviene da elementi non nicotinici, duque ciò mi suggerisce che il rimanente 20% provenga invece da elementi nicotinici corretto?

La differenza sta nella temperatura. La temperatura è molto più alta nelle sigarette tradizionali e ciò comporta la produzione di molti più composti tossici, inclusi quelli nicotinici.

Ovviamente la nicotina non è priva di rischi. Ci sono indicazioni che la nicotina potrebbe essere causa di un relativa tossicità. Ecco perché non consideriamo il vaping o i prodotti a tabacco riscaldato risk free. Ma sicuramente sono molto, molto meno tossici del fumo di sigaretta.

In generale, la scelta migliore rimane sempre quella di non utilizzare nessuno di questi dispositivi, ma se non ci si riesce, l’alternativa migliore rimane sempre quella di passare al vaping o ad altri dispositivi elettronici. Inoltre vorrei ricordare ai miei colleghi che le persone non muoiono per la nicotina: tanti muoiono e si ammalano per una eccessiva cautela.

Non smetti di fumare a causa delle nicotina, perché ti piace, perché la nicotina ti da soddisfazione. Questo non crea così tanto danno. Il problema sono i componenti combustibili. Ma se parliamo di vaping, abbiamo circa 400 componenti tossici in meno. Se vogliamo essere più specifici, possiamo parlare di radicali liberi, nitrati e carbonili. Valutando questi 400 composti tossici, si nota che sono estremamente ridotti nelle ecig e questi sono quelli ritenuti che vengono ritenuti responsabili della tossicità del fumo convenzionale.

Il 90% dei fumatori passerebbe al vaping se lo credesse essere sicuro e se fosse correttamente informati. Leggiamo di morti da covid ogni giorno nei giornali, ma dobbiamo ricordarci anche che ogni anno muoiono 5 milioni di persone a causa dei prodotti del tabacco.

Il problema è che quasi ogni giorno leggiamo storie negative sui media. Ieri il problema era che il vaping danneggiava la vista, il mese scorso era causa invece di disfunzione erettile.

Questo è il problema. Molti fumatori cambierebbero se fossero davvero informati. Purtroppo i giornalisti non indagano correttamente. E non solo i giornalisti, ma anche gli scienziati. E nel frattempo, molti medici non consigliano il vaping.

Se sei obeso, il dottore ti dice di seguire una dieta. Se hai la glicemia alta a causa del diabete, il dottore ti prescrive l’insulina. Se sei dipendente dall’eroina, ti potrebbero dare il metadone, passando a un prodotto meno dannoso. Ma se fumi, ti dicono semplicemente di smettere, come se fosse facile. Ma non lo è.

Molti miei colleghi non lo fanno forse perché temono di essere accusati di ricevere denaro dall’industria del tabacco. O forse non lo fanno perché non ci credono o perché non sono correttamente informati sulla relativa sicurezza dei prodotti alternativi. Sicuramente questi prodotti non sono sicuri al 100%, ma sono molto molto più sicuri delle sigarette.

Dovrebbero comparare l’harm reduction alla guida. Perché metti la cintura quando lo fai? Ci sono comunque dei rischi, ma in caso d’incidente ci sono meno probabilità di un danno elevato.

E qui il principio è lo stesso. Svapi o usi prodotti a tabacco riscaldato perché puoi ridurre il rischio, così come indossi un casco quando vai in bicicletta, metti la cintura in macchina o usi il preservativo quando sei a letto con un partner che non conosci.

State sviluppando standard di ricerca che potranno essere usati per studi tossicologici futuri, e presumo che questo sia dovuto alla variabilità che hai osservato nel corso degli anni?

Uno degli obiettivi del progetto Replica, a parte quello di riprodurre determinati studi, era rendere tutte queste informazioni disponibili e accessibili. Ecco perché parliamo di open science.

E noi siamo andati anche oltre perché siamo stati trasparenti nell’interpretazione dei risultati, una pratica che non è molto comune. Solitamente gli scienziati non condivido i dati grezzi a meno che non glielo si chieda. Ma noi abbiamo pubblicato tutti i risultati del progetto replica online, così che i giornalisti e gli scienziati di tutto il mondo possano vedere che protocolli usiamo.

Tuttavia, date le parzialità a cui abbiamo assistito, implicite od esplicite ed esplorate nel recente ECIG SUMMIT, quanto ampiamente pensi che questi standard verranno adottati e quanto significativi pensi saranno per la ricerca futura?

Assolutamente; la cosiddetta “bad science” è causa di un sacco di danni per il vaping. Un esempio? Un paper pubblicato recentemente su vaping ed impotenza. Non andrò nei dettagli, ma non si trattava di un studio trasversale: non era sicuramente il modo migliore per indagare l’impatto di una patologia in uno specifico gruppo di pazienti.

Ovviamente, quando hanno pubblicato i risultati hanno ottenuto molta attenzione perché possiamo dire che si trovavano dal lato politicamente corretto del dibattito scientifico. Se scrivi che le ecig sono tossiche ottieni un sacco di attenzione. Ma se trovi qualcosa che dice che il vaping è meno tossico, nessuno se ne interessa. Proprio perché ti trovi dal lato opposto rispetto al politicamente corretto. Quando non sei da questo lato non è piacevole.

Quando hai due fronti diversi, devi dare voce ad entrambi ed entrambi devono avere prove a supporto. Come nel caso dei novax. Ci sono moltissime persone che non vogliono essere vaccinate ma non ci sono basi scientifiche che possano argomentare perché non dovresti vaccinarti.

Non c’è dibattito scientifico basato su prove scientifiche tra persone che ammettono che questi dispositivi sono meno tossici rispetto alle sigarette convenzionali e persone che dichiarano che i rischi sono gli stessi e che non si dovrebbe usarli. Invece, il secondo gruppo dice ai fumatori che dovrebbero smettere come se fosse facile. Forse solo il 15% dei fumatori riesce a smettere, ma il rimanente 85%? Non riescono e quindi potrebbero finire con avere un cancro ai polmoni o incorrere in patologie cardiovascolari.

Da quando il vostro centro ha iniziato a studiare il vaping , i dati sono aumentati di anno in anno. Questo insieme di prove in aumento come ha interagito con la vostra visione sulla relativa sicurezza del vaping e la vostra fiducia in questa visione?

Uno dei problemi principali che si fanno le persone riguarda l’impatto del vaping nel lungo periodo. Ci chiedono sempre, come possiamo sapere se in 10, 15 o 20 anni non riporteremo dei danni con questi dispositivi. Certo parliamo di una categoria di prodotti relativamente recenti, e serve tempo per misurane la tossicità. Ora, però, siamo in grado di valutarne l’impatto su uno specifico campione.

Molte delle persone coinvolte in studi precedenti, infatti, sono tabagisti che hanno fumato per 20 anni prima di passare ale sigarette elettroniche. Molti di questi hanno sviluppato patologie, ma come si può valutare se tali patologie siano il risultati dei 20 anni precedenti di fumo o degli ultimi 4 o 5 anni di svapo?

Ma ora finalmente abbiamo dati su persone che non hanno mai fumato, ma hanno solo svapato. Questo è il giusto campione da studiare. Possiamo misurare la tossicità da un punto di vista clinico nel lungo periodo. E gli studi possono dimostrare che questi prodotti sono meno tossici rispetto alle sigarette tradizionali.

Ma non è corretto affermare che in termini di dati nel lungo periodo, abbiamo solo studi su persone che hanno usato questi dispositivi per 4 o 5 anni?

Ad oggi, abbiamo dati su svapatori esclusivi che vanno indietro di dieci anni: uno di questi studi è diretto dal prof. Polosa e un altro invece è chiamato Deletus Project, coordinato dal CoEHAR di Catania, il centro che dirigo.

Abbiamo voluto raccogliere prove su un campione di svapatori che non hai mai fumato ed ovviamente difficile raggiungere quella specifica popolazione. Abbiamo dovuto coinvolgere persone da tutta Europa in modo da avere un’analisi statistica rilevante.

Ovviamente, un altro problema è che quando le persone iniziano a svapare senza aver mai fumato, si potrebbe incappare in una forte opposizione. Ma come sapere che queste persone non avrebbero iniziato a fumare in ogni caso? Abbiamo prove scientifiche a riguardo? No, è solo pura ideologia e non posso accettarla. Io ho due figli. Spero che consumeranno mai nicotina, ma se dovessero farlo sarei felice se usassero un dispositivo elettronico rispetto a una sigaretta convenzionale.

E riguardo alle persone che hanno svapato per oltre 10 anni? Cosa ci dicono le prove?

Quello a cui assistiamo è un grande decremento delle patologie associate, delle patologie cardiovascolari e di altre patologie polmonari come l’asma.

Qualcosa altro che vorrebbe aggiungere?

Si, ricordiamoci che quando leggiamo questi studi più negativi dobbiamo saper leggere tra le righe. Indaghiamo i material, i metodi e i pazienti, e nello specifico guardiamo se le persone coinvolte nello studio hanno un trascorso da fumatori. Se le risposte a questi punti sono affermative ci sono alte probabilità di parzialità nello studio.

Inoltre non dimentichiamoci che c’è una grande percentuale di persone che ancora fumano e che potrebbero passare ai prodotti alternativi se fossero correttamente informate. Dunque dobbiamo raggiungere quelle persone. Se possiamo, abbiamo il 90% di possibilità di ridurre le lore chance di avere malattie croniche .

Mal di testa da svapo, tutto quello che c’è da sapere

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La ricerca sugli effetti a lungo termine del vaping mette in evidenza che uno dei possibili effetti collaterali dello svapo è il mal di testa. Ma cosa si intende con il mal di testa da vaping?

Il mal di testa da svapo è un effetto collaterale del vaping abbastanza comune e di solito poco rilevante che viene riscontrato da alcuni neo vapers come effetto collaterale. I mal di testa accusati dagli svapatori, infatti, in genere passano da lievi a moderati ma senza quasi mai diventare acuti.

Come si manifesta il mal di testa da vaping?

La maggior parte delle persone che sperimentano il mal di testa da vaping hanno un dolore sordo, ma i sintomi possono variare.

In alcuni casi, il mal di testa è l’unico effetto collaterale sgradevole che si prova dopo aver svapato, ma in altre occasioni si possono manifestare altri effetti collaterali insieme ad esso. Tra questi:

  • bocca secca
  • aumento dell’ansia
  • insonnia
  • tosse
  • irritazione della gola
  • stordimento
  • respiro corto

Perché alcune persone hanno mal di testa quando svapano?

Ci sono diverse ragioni per cui il vaping può causare mal di testa in alcune persone. Una delle cause più probabili è il contenuto di nicotina. La nicotina colpisce i vasi sanguigni del cervello, facendoli restringere. Questo riduce il flusso di sangue al cervello e può causare mal di testa in alcune persone. Poiché la nicotina è uno stimolante, può anche rendere i nervi di alcune persone più sensibili al dolore. Anche se i prodotti da vaping possono contenere meno nicotina di altri prodotti del tabacco, è ancora più che sufficiente per dare ad alcune persone un mal di testa. Inoltre, il contenuto di nicotina varia ampiamente tra le diverse marche di vaping e di sigarette elettroniche. La nicotina, però, non è l’unica causa. Due degli ingredienti principali del liquido da vaping, possono portare alla disidratazione e questo può dare una sensazione di bocca secca e, in molti casi, un mal di testa. Gli aromi e gli altri ingredienti, proprio come alcuni profumi o spezie, variano a seconda della marca e potrebbero essere la causa del mal di testa.

Si può prevenire il mal di testa da vaping?

Certo che si e comunque quando la causa è il vaping, e quindi il mal di testa è moderato, non c’è da allarmarsi. Nei casi in cui questo diventa acuto, ovviamente, è meglio rivolgersi al proprio medico e fare le valutazioni per cercarne la causa scatenante.

Quali rimedi?

  • Svapare con moderazione. Più nicotina si immette nel corpo, più è probabile che si abbiano effetti collaterali, compreso il mal di testa.
  • Bere molta acqua. Dato che disidratarsi è una preoccupazione, avere acqua a portata di mano è una buona idea.
  • Leggere le indicazioni dell’e-liquido. Usare un e-liquid con meno nicotina o meno glicole propilenico potrebbe ridurre le possibilità di avere un mal di testa.
  • Controllare i gusti degli aromi. Gli aromi fanno parte del fascino del vaping, ma possono anche causare mal di testa. Se un gusto ha provocato il mal di testa, si può provare a cambiare e sceglierne un altro.

USA: uno studio del National Institutes of Health accetta le e-cig come strumento per smettere di fumare

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Un nuovo studio americano promosso dal NIH, il National Institutes of Health, ha valutato l’impatto delle sigarette elettroniche sui fumatori che non hanno intenzione di smettere e ammette finalmente che le probabilità di successo sono più alte tra coloro che usano le elettroniche.

Si tratta di una ricerca innovativa che apre uno spiraglio verso l’accettazione in suolo americano (da sempre restio alle nuove forme di consumo di tabacco elettronico) alla possibilità che le elettroniche possano coadiuvare i percorsi di smoking cessation” – così il prof. Riccardo Polosa, fondatore del CoEHAR ha commentato lo studio.

Forse che si stia riconoscendo sempre di più che le politiche tradizionali non siano efficaci per raggiungere efficacemente il gruppo di fumatori che non hanno intenzione di smettere?

In America, la pubblicazione e la vendita di sigarette elettroniche è legata a doppio filo al cosiddetto Premarket Tobacco Product Application: tra le centinaia di richieste arrivate, solo tre produttori di ecig hanno ottenuto il consenso alla commercializzazione dei propri prodotti ad ottobre 2021.

La decisione basata essenzialmente sugli studi di settore, molto spesso incentrati quasi esclusivamente su campioni di fumatori già disposti a dire addio al tabagismo.

Un team di ricercatori del Roswell Park Comprehensive Cancer Center ha analizzato i dati raccolti tra il 2014 e il 2019 dallo studio PATH, una ricerca di lungo decorso che ha valutato l’impatto degli schemi di consumo del tabacco e dei possibili risvolti in termini di salute, dichiarando che i fumatori abituali di sigarette avevano più probabilità di smettere con le sigarette elettorniche.

Nel loro nuovo studio, condotto su oltre 1600 fumatori adulti che non avevano pianificato di smettere e che non avevano utilizzato sigarette elettroniche, hanno voluto indagare le possibilità che le ecig rivestono per i tabagismi più incalliti.

Circa il 6% di soggetti ha abbandonato le sigarette del tutto durante lo studio. Il 4.5% ha ridotto il numero di sigarette fumate a meno di una al giorno.

Chi aveva usato le sigarette elettroniche quotidianamente alla fine dello studio aveva una probabilità 8 volte maggiore di smettere completamente. Avevano anche aumentato di 10 volte le probabilità di smettere di fumare ogni giorno.

La comunicazione in pandemia: come riconquistare la fiducia?

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Fake news, incertezze, statistiche, provvedimenti: la comunicazione in epoca pandemica non è qualcosa da prendere sotto gamba. Una delle sfide che la comunicazione scientifica in epoca covid ha dovuto affrontare sin dal primo lockdown è stata quella di bilanciare la necessità di fornire indicazioni chiare e precise con la volontà di rassicurare le persone.

In articolo pubblicato dal Centro per la ricerca e la politica sulle malattie infettive (CIDRAP) del Minnesota, il ricercatore Peter Sandman spiega quali sono stati gli errori in campo nella comunicazione scientifica della pandemia e quali le strategie da utilizzare in questo particolare periodo storico per ripristinare la fiducia nella scienza.

Tralasciando il dibattito su quanto il metodo scientifico abbia bisogno di una temporalità che non coincide né con gli interessi umani né tantomeno con quelli politici, quello a cui assistiamo oggi è una sorta di cultura fai da te, dove l’utente medio preferisce raggranellare informazioni e formarsi una propria opinione basandosi su contenuti provenienti da fonti diverse e uniformandosi al comportamento di massa.

Stiamo assistendo dunque alla nascita di fenomeni di scetticismo e disinformazione tra la popolazione, alimentati da una informazione scientifica confusionaria.

Molti degli errori comunicativi in epoca pandemica a cui si può porre rimedio, per riconquistare la fiducia di chi legge e si informa, sono questi.

1. Estrema fiducia

L’errore più scontato: ci siamo trovati ad affrontare una situazione senza precedenti, di cui era chiaro non si sarebbero potute avere informazioni precise. Un errore manifestatosi soprattutto quando si iniziava a parlare di vaccini.

Si è preferito indicare il vaccino come soluzione, identificarla come il traguardo finale, invece di scoprire il fianco e ammettere che avremmo dovuto aspettare e monitorare quali sarebbero stati i primi risultati su larga scala. Ad oggi, la crescente sfiducia nelle soluzioni vaccinali dipende anche dai limiti degli stessi, non comunicati efficacemente.

Nel comunicare bisogna saper dosare la relativa sicurezza nel possedere e maneggiare le informazioni con la possibilità di ammettere una relativa ignoranza o non-conoscenza.

2. Mancata prevenzione

Nella comunicazione in periodi di crisi, anticipare quello che potrebbe venire significa preparare psicologicamente ed emotivamente le persone ai momenti più difficili.

Anche fornire algoritmi comportamentali può aiutare le persone a comprendere, ad esempio fornendo indicazioni chiare: “se il tasso di positività risale a una data soglia, sarà necessario rimettere le mascherine”. Spiegare alle persone il perché di una norma e quando attuarla è meglio che introdurre un obbligo di punto in bianco.

3. Falso consenso

Come spesso accade, l’opinione che ci viene comunicata è quella che mette d’accordo almeno l’80% degli esponenti di una data categoria. E  generalmente l’opinione di minoranza non è indagata o non le si presta particolare attenzione.

Certo è importante riuscire a trovare una linea comune, ma questo non significa calpestare prove o fornire dati rassicuranti quando la situazione non è chiara.

Il falso consenso è alimentato almeno inizialmente da una posizione scientifica condivisa. 

Dopodiché quando si vira sul “cosa fare”, si iniziano a manifestare delle crepe. Come ad esempio nel caso del richiamo del vaccino: le posizioni scientifiche si sono intersecate con opinioni transcientifiche, come ad esempio che atteggiamento adottare nei confronti dei non vaccinati o se attendere prove più solide prima di richiedere l’obbligo vaccinale.

4. Dare priorità alla salute rispetto ad altri valori

Questo è un punto molto importante: la crisi pandemica ha posto le basi per rendere l’interesse sanitario quello principale. Ma ciò non significa che esistano valori alternativi.

Per guadagnarsi di nuovo la fiducia delle persone, si devono prendere in considerazione altri criteri, oppure accettare che la comunità scientifica debba semplicemente essere portatrice di consigli e rimandare le decisioni agli organi politici o di governo, trattenendosi dal rendere l’opinione scientifica un qualcosa da sensazionalizzare.

5. Dare priorità ala salute rispetto alla verità 

Ci sono casi in cui la salute pubblica decide chiaramente di omettere informazioni per tutelare la salute sopra ogni altra cosa. Come nel caso della poliomielite e delle possibili controindicazioni associate al vaccino per via orale.

Molte volte si ha la convinzione sbagliata che la menzogna o l’omissione possano di fatto produrre un effetto positivo, come quello di salvare vite. Ma in realtà ciò che si ottiene è una costante e progressiva erosione della fiducia.

6. Incapacità nel gestire gli errori

Esiste una sistema per riconquistare la fiducia: ammettere i propri errori. Ma il più delle volte la linea di comportamento prevede altre soluzioni, ad esempio quella di non correggere l’errore. Altre volte invece si corregge l’errore in maniera tale che non sia dia risonanza alla notizia, come avviene su molti siti web di salute pubblica, dove vengono pubblicate nuove raccomandazioni in orari serali o notturni.

Altre volte si ammette di aver cambiato posizione, ma non si danno notizie sul perchè la decisione venga cambiata.

Spesso viene negata la posizione precedente adducendo motivazioni esterne, come una citazione sbaglia o un fraintendimento,

7. Sbagliare nel trattare la disinformazione

Bisogna saper trattare la disinformazione, con credibilità ed empatia. Esiste un solo tipo di vera disinformazione, ovvero quella delle falsità dimostrabili. 

Il resto può essere frutto degli stessi strumenti e delle stesse modalità che si sono usate per comunicare un dato messaggio. E allora bisogna porsi l’obiettivo di confutare le informazioni sbagliate mettendosi nell’ottica che si potrebbe anche non raggiungere l’obiettivo, ovvero quello di convincere le persone della validità di una linea di azione.

È fondamentale sopra ogni cosa dimostrare empatia nei confronti delle opinioni diametralmente opposte, senza eccedere nell’identificare gli altri come soggetti che sbagliano per ignoranza o per mancata informazione.

Nel frattempo, si deve avviare un processo di raccolta e disseminazione di dati veritieri e credibili per ricostruire la fiducia e la base di consenso. 

8. Politicizzazione

Uno dei rischi intrinsechi della comunicazione in un periodo così particolare, risiede nel fatto che la politica possa trasformare le informazioni in maniera tale da ottenere consensi da parte dell’elettorato. 

Ma se la comunità scientifica fosse davvero allineata su una comunicazione veritiera più che rassicurante, si diminuirebbe la possibilità da parte della componente politica di riutilizzare le informazioni con secondi scopi.

In conclusione, comunicare in epoca pandemica significa accettare di sottoporsi a un processo di continuo adattamento, imparando e ammettendo i propri errori. Alla base, rimane la necessità di voler comunicare la verità nel modo più trasparente possibile, portando alla luce dati decontestualizzati e significativi.

Vaccini Covid-19: fumo accelera la caduta degli anticorpi

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Secondo uno studio condotto da un team di epidemiologi italiani, coordinati dal CESP di Milano Bicocca e con la supervisione del CoEHAR, il numero di anticorpi indotti dal vaccino per il COVID-19 diminuisce in maniera più rapida nei non fumatori

L’avvento dei vaccini ha permesso di arginare, almeno parzialmente, la crisi scatenatasi al seguito della diffusione pandemica del Covid-19. Ma la risposta immunitaria a questi preparati varia a seconda di diversi fattori, abitudini comprese.

Un team di ricercatori italiani ha dunque voluto studiare la possibile correlazione tra fumo di sigaretta e la velocità di decremento del numero di anticorpi: considerato un campione di 162 operatori sanitari volontari, si è scoperto che il loro livello inizia a diminuire già dal secondo mese dopo la vaccinazione in maniera molto più rapida dei fumatori.

«I vaccini si sono dimostrati un’arma efficace contro il Covid-19. Sappiamo che la risposta immunologica è influenzata dai diversi fattori, come una precedente infezione da SARS-CoV-2, ma anche i nostri comportamenti e stili di vita. Abbiamo bisogno di ulteriori conferme dalla ricerca, ma questo studio suggerisce che il fumo contribuisce a indebolire la risposta delle immunoglobuline e con possibili implicazioni sull’efficacia stessa della vaccinazione. E questo può riguardare anche gli altri vaccini oltre a quelli anti-Covid-19» spiega Pietro Ferrara, medico epidemiologo del CESP di Bicocca.

Lo Studio

Lo studio è parte di un più ampio progetto di ricerca, denominato VASCO (Monitoraggio della risposta al Vaccino Anti-SARS-CoV-2/COVID-19 in operatori sanitari) e coordinato dal CESP dell’Università Bicocca diretto dal Prof. Lorenzo Mantovani.

L’obiettivo è stato quello di valutare la risposta al vaccino Pfizer in un campione generale di oltre 400 soggetti, confermando sicurezza ed efficacia della vaccinazione anti-COVID-19.

L’ultima pubblicazione è la terza di una serie di ricerche parte del progetto VASCO, frutto della collaborazione attiva con il CoEHAR.

Nello specifico, questa analisi si è concentrata su 162 soggetti con un’età media di 43 anni e, dei quali, 28 avevano avuto precedente infezione da SARS-CoV-2, in cui sono stati valutati il livello di anticorpi indotti dal vaccino e il suo andamento nel breve-medio termine dopo la vaccinazione.

Tutti i soggetti erano stati precedentemente vaccinati con vaccino a mRNA BNT162b2 di Pfizer-BioNTech.

Per esaminare la risposta anticorpale al vaccino, i volontari sono stati sottoposti a test sierologici seriati per valutare il livello degli anticorpi e come questi cambiano nel tempo.

I risultati sono stati analizzati in funzione di età, sesso e precedente infezione da Covid-19.

Successivamente, i ricercatori si sono chiesti se il fumo avesse potuto giocare un ruolo nel tipo e nella durata della risposta anticorpale, analizzando i dati mensili degli anticorpi.

Le analisi sierologiche hanno dimostrato che il loro livello inizia a diminuire già dal secondo mese dopo la vaccinazione in maniera molto più rapida dei fumatori.

Il Prof. Riccardo Polosa, Fondatore del CoEHAR, guarda alle implicazioni dirette ai fumatori: «La ricerca scientifica in questo particolare periodo storico sta facendo sforzi enormi per trovare le risposte più efficaci per combattere il Covid-19, ma non possiamo dimenticare che ci sono tantissime altre malattie che portano alla morte e che dobbiamo considerare di risolvere i fattori di rischio modificabili, attraverso la corretta prevenzione o il passaggio a soluzioni meno dannose. Tra questi c’è l’abitudine al fumo. I nostri ricercatori stanno valutando quanto il fumo incida sulla progressione del Covid-19 e sull’impatto che Sars-Cov-2 ha sui soggetti fumatori: è evidente che si tratta di una relazione significativa che non possiamo sottovalutare».

Per confermare e rafforzare questa scoperta, gli studiosi sono attualmente impegnati a condurre una revisione della letteratura disponibile sulla risposta ai vaccini contro il Covid-19.

I ricercatori del CoEHAR sono convinti che i risultati saranno indispensabili per aumentare la conoscenza sui meccanismi di risposta alla vaccinazione Covid-19, ma soprattutto per sensibilizzare i fumatori a smettere.

Back to the ‘80s: stiamo assistendo a un ritorno del fumo?

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Le mode vanno e vengono: ciò che a un certo punto sembra diventare vecchio e “già visto” viene immediatamente rifilato nel dimenticatoio, alla velocità di un click sui social media. E dopo anni si può assistere a un ritorno, nell’ottica della continua ricerca del nuovo e della tendenza. 

E sebbene questa tendenza alla riscoperta del vintage potrebbe inserirsi ai margini dei discorsi di economia circolare e sostenibilità, ci sono esempi di mode che pensavano ormai di aver incasellato alla voce “non cool” con un discreto margine di sicurezza.

A mettere la pulce nell’orecchio, un articolo apparso recentemente sul New York Times, che si interroga se la percezione sull’aumento di persone che fumano sia dovuto a una semplice casualità e al numero di limitato di persone in circolazione o se invece stiamo assistendo a un ritorno, a una seconda primavera tabagica.

Un dato che per il momento non trova conferma in studi e ricerche, che anzi attestano un percentuale di fumatori più bassa rispetto al passato.

E allora da cosa deriva questa sensazione?

La pandemia ha alimentato tre effetti secondari molto spiacevoli: il primo, più evidente, è legato alla solitudine generata dai periodi di confinamento e mancanza di contatto sociale.

Esistono diverse studi internazionali secondo i quali durante la pandemia, la convivenza forzata con altri membri della famiglia e l’impossibilità di fumare nelle proprie abitazioni, oltre che alla paura che la sigaretta rappresentasse un fattore di rischio per una patologia respiratoria come il Covid-19, abbia diminuito il numero di fumatori.

Allo stesso tempo, ansia e solitudine hanno dipinto le tonalità dei grigi del nostro umore, due trigger emotivi che tendono ad aumentare la necessità di rifugiarsi in una pratica da sempre connessa all’evasione e al relax.

In secondo luogo, la pandemia ha alimento una delle paure più profonde e inconsce dell’essere umano: la paura di morire.

E da alcune interviste raccolte dal giornalista del New York Times è emerso che propria questa irrazionale paura verso un nemico mortale ha alimentato un effetto interessante: a fronte di una situazione così allarmante, il rischio spalmato sul lungo periodo del fumo è sembrato meno preoccupante e imperante del Covid-19.

Un discorso che non trova coincidenza con la realtà e che, speriamo, sia limitata a un campione ristretto di persone, ma che apre uno spaccato interessante sui complessi meccanismi psicologici che regolano il comportamento di fronte a un fattore di stress.

Esiste poi un ultimo fondamentale aspetto: avevamo già trattato quanto il paragone con i canoni proposti dai social media fosse fondamentale per approcciare o abbandonare la sigaretta.

Sono ancora troppo diffusi personaggi di riferimento mediatici che intendono il fumo come una pratica cool da sfoggiare. Allo stesso tempo, il bisogno di riunirsi e di condividere diventa necessario per ritrovare quel senso di socialità che era andato perduto nei lunghi mesi di solitudine o di allontanamento dalla società.

E il vaping come si colloca in tutto questo?

I dibattito sui metodi alternativi a rilascio di nicotina è quanto mai aperto: sappiamo che il mercato statunitense è particolarmente contrario al fumo elettronico.

La percezione generale, alimentata da una malsana informazione scientifica, è che le prove sugli effetti a lungo termine del vaping siano ancora insufficienti e che tale pratica sia semplicemente il colpo di coda dell’industria tabagica per alimentare il fatturato sul tabacco.

La demonizzazione di questo strumento è più forte degli studi internazionali indipendenti che dimostrano quanto in realtà ci sia di sbagliato nella precedente affermazione: standard metodologici implementati e studi sul lungo periodo confermano infatti che il vaping è molto meno dannoso (più del 90%) della sigaretta.

Di fronte alla scelta fumo tradizionale o elettrico, la scelta dovrebbe orientarsi immediatamente verso i dispositivi più sicuri: la strada per uscire dalla pandemia è ancora lunga, ma abbandonare la lotta verso scelte più consapevoli e migliori significa tornare indietro di decenni nella lotta al fumo.