giovedì, Aprile 25, 2024
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Vaping e disinformazione: quando l’informazione scientifica incontra la politica

Contrordine per tutti consumatori. Non vi è nessuna associazione tra lo svapare ed avere maggiori probabilità di contrarre il Covid-19. A dirlo uno studio dell’autorevole Mayo Clinic che ha analizzato un campione di 70 mila pazienti in base al loro consumo di differenti prodotti a base di nicotina. L’obiettivo, rilevare se e quali tipi di tabacco potevano portare ad un maggiore rischio di contrarre un infezione da SARS-CoV-2.

Risultato, oltre a non trovare nessuna associazione tra vaping e aumento delle probabilità di contrarre il virus, lo studio ha evidenziato come i fumatori siano risultati meno esposti al rischio di infezione da Covid-19, inclusi gli utilizzatori di sigarette elettroniche. Un ottima notizia, che capovolge totalmente la narrazione portata avanti durante la prima fase della pandemia, quando eminenti testate internazionali come il New York Times, USA Today, e la stessa CNN pubblicavano a suon battente come l’utilizzo delle sigarette elettroniche potesse aumentare le probabilità di contagio.

Eppure, il danno era già stato fatto. Lo scorso anno si è infatti assistito ad un drastico calo nelle vendite – e quindi nell’adozione di alternative maggiormente sicure- delle sigarette elettroniche a causa di notizie incontrollate e poco veritiere.

Lo studio indicato inizialmente, e che ha provocato questa ingiustificata ondata di paura, è quello prodotto dall’Università di Stanford, e pubblicato sul Journal of Adolescent Health. La ricerca indicava come il campione di 4.351 persone di età compresa tra 13 e 24 anni che utilizzavano abitualmente sigarette elettroniche avessero “una probabilità cinque volte maggiore di avere una diagnosi positiva da COVID-19.”

Nonostante le buone intenzioni dello studio (si era in una fase iniziale della pandemia e con poche ed incerte informazioni riguardo il virus) non sono stati pochi gli scienziati che hanno criticato il campione relativamente piccolo e altamente sotto-rappresentativo della popolazione totale. Tra questi, il Prof. Riccardo Polosa, fondatore del Centro di Eccellenza per l’Accelerazione della Riduzione del Danno da Fumo (CoEHAR) dell’Università di Catania che in un tweet dello scorso Marzo rispondeva al Sindaco di New York De Blasio che supportava le conclusioni della ricerca di Stanford.

Il Sindaco di New York afferma che fumare o svapare aumenta le possibilità di avere sintomi gravi da Coronavirus. Ma dove sono le prove? Bisogna smettere di mettere sullo stesso livello il fumo tradizionale con lo svapo. Metti i fatti in ordine, sindaco.

In quell’occasione, il Prof. Polosa andava dritto al punto affermando la mancanza di basi scientifiche a supporto delle dichiarazioni di De Blasio. Le successive ricerche condotte da differenti istituti di ricerca hanno poi confermato le parole dello scienziato catanese.

“Sebbene sia stato dimostrato come il fumo aumenti la suscettibilità alle infezioni respiratorie da agenti patogeni batterici e virali e smettere di fumare sembra ridurre il rischio di infezione respiratoria, lo stesso non si applica allo svapo” aveva aggiunto Polosa durante il suo intervento.

Una recente ricerca statunitense ha confermato come gli studi che non possono essere replicati e quindi con scarsa attendibilità sono citati 153 volte in più rispetto a quelli più autorevoli. Il motivo starebbe nella maggiore capacità di attirare l’attenzione dei lettori.

Sempre secondo lo studio californiano, le ragioni alla base di questa tendenza sarebbero anche la pressione esercitata su giornali e giornalisti nel pubblicare risultati interessanti, situazione che si ripercuote anche per gli accademici in cerca di fondi e prestigio.

Antonino D'Orto, giornalista, laurea in Comunicazione e Relazioni internazionali è impegnato da anni nella comunicazione istituzionale ed Ufficio Stampa. Per LIAF Magazine si occupa di Esteri, Riduzione del Danno da Fumo, geopolitica sanitaria.

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