giovedì, Aprile 25, 2024
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Bandire il vaping in India: l’esperimento che non sta funzionando

Ci sono nazioni nel mondo in cui le sigarette elettroniche e i relativi prodotti per il vaping sono dichiarati “fuorilegge”: è il caso dell’India, che a partire dal 2020, ha vietato la produzione, la commercializzazione, l’importazione, lo stoccaggio, la vendita e la pubblicità relativa alle sigarette elettroniche.

Violare la legge può costare caro: multe di circa 1400 dollari e fino ad un anno di reclusione per chi viola la disposizione per la prima volta. Sanzioni che lievitano se il fatto viene reiterato. La legge ha inoltre valenza retroattiva: lo stoccaggio di prodotti per il vaping, anche se per utilizzo personale e anche se avvenuto prima dell’entrata in vigore del bando, non è consentito.

Sanzioni che si sono ulteriormente aggravate nel febbraio 2020, quando l’India ha deciso di vietare il trasporto di prodotti legati al vaping sugli aerei: andare in vacanza a Londra e tornare con una scorta personale è diventato illegale.

Ma la decisione può funzionare?

L’india è un paese dove, dati del 2018 alla mano, risiede il 12% dei fumatori totali mondiali, circa 120 milioni di fumatori. Se consideriamo invece il tobacco assunto non solo sotto forma dei sigarette, ma inteso anche come bidis (tabacco avvolto in foglie) o gutkha (tabacco da masticare), la percentuale di utilizzatori indiani di tabacco sale addirittura al 29%, rendono l’India il secondo consumatore dopo la Cina.

Le conseguenze della decisione governativa non si sono fatte attendere: come spesso in presenza di un bando, a trarne vantaggio è stato il mercato nero, dove la compravendita di prodotti illegali ha auto un’enorme crescita. Prodotti che, inutile specificarlo, non devono centrare alcun tipo di standard di produzione e che non sono sottosti ad alcun controllo.

Secondo un articolo della rivista Filter, che ha avuto la possibilità di intervistare diversi svapatori, la decisione del governo, oltre alla sopracitata conseguenza di implementare il mercato nero, ha avuto conseguenze peggiori: in primis, molti tabagisti sono tornati a fumare le sigarette convenzionali, spaventati sia dalle ritorsioni legali sia dalla difficoltà di reperire i prodotti.

In secondo luogo la ricerca di settore ha subito un brusco rallentamento, possiamo nei dire che è stata fermata del tutto: senza ricerca, mancano i dati per convincere le autorità a fare marcia indietro e, sopratutto, senza evidenze scientifiche non vi è dibattito, continuando così ad alimentare una visione retrograda in cui lo “smettere di fumare” viene relegato alla semplice decisione personale, e non a un complesso insieme di abitudini e dipendenza difficile da spezzare. 

In ultimo, la decisione ha stigmatizzato l’atto dello svapare, impedendo a molti sia di svapare per proprio conto, sia, soprattutto, di prendere in considerazione il vaping come metodo di cessazione.

Una situazione, quella indiana, che risente moltissimo delle influenze americane, dove il vaping è attualmente osteggiato e oggetto di restrizioni diverse nei vari stati e dove l’attenzione posta sull’eventuale dipendenza giovanile viene usata come una delle argomentazioni più forti.

L’approccio al vaping degli USA non può funzionare in India, una nazione in cui il vaping è un fenomeno relativamente nuovo, estraneo alle politicizzazione tipiche americane. Un paese che presenta tassi di utilizzo del tabacco piuttosto alti e le terapie sostitutive a base di nicotina sono piuttosto scarse, soprattutto per la popolazione delle aree più rurali.

Soluzioni che, sul già tentennante sistema sanitario indiano, hanno una rilevanza e un impatto nettamente maggiore, escludendo di fatto molti cittadini da poter attuare strategie salvavita se fumatori.

Chiudere il dibattito scientifico significa privare i fumatori indiani della possibilità di poter scegliere un’alternativa al fumo tradizionale: il mondo del vaping, purtroppo, a livello mondiale, necessita di una comunicazione diversa, che possa veramente far trasparire il messaggio di uno strumento che può cambiare radicalmente l’approccio alle strategie di cessazione.

Giornalista praticante, collabora con LIAF, dove scrive di salute e attualità. Appassionata di sport, con un passato da atleta agonista di sci alpino, si diletta nell'indagare le nuove frontiere della comunicazione e della tecnologia, attenta alla contaminazione con generi e linguaggi diversi.

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